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Boca-River, Poesia di un Superclasico

Buenos Aires è una città enorme e frenetica, con oltre 11 milioni di abitanti potenzialmente pronti a fare un grande caos. Eppure, quando Boca e River si fronteggiano, la città diventa muta.

L’arcobaleno del calcio si riassume in pochi colori: sarà tutto blu e giallo o tutto bianco e rosso e ci sarà un solo punto in tutta la città dove si concentrano colori, suoni e passione.

Un Superclasico è religione, ma anche ossessione. La gente vive per la propria squadra riflettendosi in essa, trovandovi gioia e dolore, proprio come nella vita di tutti i giorni.

Il calcio a Buenos Aires non è solo un gioco ma è un genere letterario: è poesia.

Ed il superclasico è una di quelle cose che rifiutano una definizione lessicale, poiché rischierebbe di essere semplicistica e vaga senza dare la percezione di un istante, di un momento di follia; servirebbero miliardi di parole per descriverlo.
Allora proviamoci.

Poesia [mai recitata] di un Superclasico

Un River-Boca è tutto, o quasi. È il quartiere de La Boca. È il Caminito delle case colorate con lo stadio de la Bombonera, lì che cerca di nascondersi. Sono i nomi in inglese che negli anni sono stati spagnolizzati fino alla nausea. È la lotta tra gli immigrati. È il Monumental, la casa del River, imponente tra Belgrano e Nunez con la sua aria aristocratica. Sono le donne di quartiere che vanno gridando “Vamos River” e “Aguante Boca”.

È la lotta tra chi ha vinto il primo superclasico quando il calcio era solo amatoriale e chi ha vinto il primo nel professionismo. È l’adattamento di qualsiasi statistica per poter dire chi ha vinto più campionati e coppe rispetto all’altro, senza essere mai d’accordo. È il racconto verbale di quante vittorie ha fatto una squadra sul campo dell’altra. È un assolo di Maradona che corre al centro della Bombonera, ed è anche Francescoli che schiva gli avversari al Monumental. È il triplete nazionale che il Boca non ha mai vinto. È il tre volte Campione del Mondo per Club che il Boca vanta e non il River.

È la bandiera più grande del mondo, o anche il titolo di “miglior tifoseria del ventesimo secolo”. È una rivista inglese che ti dice cosa devi vedere prima di morire alle Malvinas. È lo stadio più grande contro quello che non è così grande e non lo vuole essere per identità. È un tifoso che grida per strada che la Bombonera ha un cuore che batte quando è colma, mentre un altro gli grida contro che, quello stesso stadio invece trema quando la sua squadra arriva “a la cancha”. È un “sei andato in B” e lo sfottò del giorno dopo.
E poi ci sono sei Coppe Libertadores contro quattro, ma è anche la prima finale della coppa dove quello con quattro batte quello con sei.

È il River definito“La Maquina” implacabile di Renato Cesarini. Sono i classici della Coppa Libertadores di fine anni ’70. È il “gol in stampelle” di Martin Palermo e quelli fatti dal piede sinistro di Pisculichi.

È la punizione di Cardona e la memorabile ripartenza del “Pity Martínez”. Sono le ragazze, argentine e passionarie, perché non è una cultura machista.

È un dipinto per il Louvre. È un assolo di chitarra di Jimi Hendrix, la voce su un tango di Gardel; è un gancio di Monzon, ma anche una carezza di Evita Peron.

È un punto da cui nessuno parte e dove nessuno torna. È un luogo della memoria dove alcuni vogliono andare più di altri. È un mondo a sé per 90 minuti, in cui il tempo e la storia rallentano per scrivere un nuovo versetto da raccontare una prossima volta, perchè per quanto rancore ci possa essere tra i tifosi dell’una o dell’altra squadra alla fine il Superclasico è un’abbraccio tra gli 11 milioni di abitanti di Buenos Aires.

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