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La Fiorentina yè-yè e lo Scudetto sulle note dei Beatles

Alla fine degli anni sessanta, sotto la spinta dei tanti fatti storici accaduti all’epoca come la Guerra del Vietnam, l’omicidio di Martin Luther King o la Primavera di Praga, sul mondo soffiava un forte vento di rivoluzione, che smosse lo spirito dei giovani convinti dall’ideale di lottare a favore del Bene contro il Male.
Quella generazione ha lottato per consegnare ai loro figli un mondo completamente diverso e lo ha fatto sulle note dei Beatles che, sono stati la colonna sonora di quel periodo e che proprio nel 1969 chiusero un decennio indimenticabile incidendo il loro ultimo album: Abbey Road, quello della famosa copertina dei 4 di Liverpool sulle strisce pedonali.


Il 1969 è anche l’anno dove successero degli avvenimenti davvero sconvolgenti come lo Sbarco del Primo Uomo sulla Luna o la Fiorentina che vinse il suo secondo scudetto, addirittura in casa della Juventus. Impensabile oggi!! Eppure era esattamente l’11 Maggio e Torino quel giorno si tinse tutta di viola, perché quella squadra arrivò a giocare lì con lo scudetto praticamente già cucito sul petto.

Erano gli anni della musica beat, con la moda dei capelli lunghi e quella Fiorentina era una squadra figlia del suo tempo, in grado di esprimere un calcio spensierato e per certi versi anch’esso rivoluzionario. Firenze si ritrovò cosi a vivere la sua favola, grazie ad un gruppo di giovani sessantottini in pieno stile anticonformista e per questo si guadagnarono il simpatico appellativo di ragazzi yè-yè.

PERCHE’ LA FIORENTINA YE YE HA FATTO UNA COSA INCREDIBILE

La Fiorentina che vinse il suo primo scudetto, 13 anni prima nel 1956, era una vera corazzata: i libri di storia raccontano di una squadra che poteva e doveva vincere molto di più di quanto abbia realmente raccolto. Dopo lo scudetto infilò, infatti, anche 4 secondi posti in campionato e perse la Finale di Coppa Campioni solo davanti al Real Madrid di Gento e Di Stefano. Fece in tempo a vincere una Coppa Italia, ma anche a perdere due finali prima di arrivare a sfaldarsi definitivamente perché i soldi finiscono…

Il nuovo presidente Baglini, che raccolse la squadra, aveva le idee chiare: risanare il bilancio e puntare sui giovani (forti però eh).

Nei due anni che precedettero lo scudetto del 1969 tutto si poteva pensare tranne che quella vittoria potesse arrivare: furono precisamente gli anni delle cessioni eccellenti in cui partirono nomi importanti quali: Albertosi, Bertini, Brugnera e soprattutto un certo Hamrin, cioè uno che aveva letteralmente scritto la storia viola mettendo a referto ben 151 gol con la maglia gigliata (solo Batistuta molti anni dopo riuscirà a fare meglio). Un po’ come se alla nazionale italiana campione del mondo in Germania togliessimo Buffon, Cannavaro, Gattuso e Gilardino…

D’accordo arriva il brasiliano Amarildo, che è sì campione del mondo in carica con la sua nazionale, ma soffre di saudade e non è continuo nelle prestazioni.
Viene anche allontanato lo storico Mister Chiappella, che aveva fatto grande la Fiorentina negli anni di gloria, ma che sembrava non avere più il carisma o la voglia di valorizzare il nuovo corso di giovani calciatori. Il presidente Baglini allora lo sostituisce con un oriundo, Bruno Pesaola detto il Petisso (il piccolo per via del metro e 65 di altezza). Quando Pesaola arriva a Firenze ha la fama di essere un avvezzo giocatore di poker, uno scommettitore di cavalli, un donnaiolo oltre che un gran fumatore di Nazionali senza filtro!


Il Petisso in un’iconica foto che puntualmente lo immortala con la sigaretta in bocca

Perciò dopo il ridimensionamento attuato, nessuno in città fantasticava di vincere qualcosa. Ma quei ragazzi, che dalla Primavera si ritrovarono a giocare in Serie A, riuscirono a creare con Firenze e i fiorentini un rapporto molto intenso, sancito da quel 4 novembre del 1966 giorno in cui la città visse il momento più drammatico del suo dopoguerra con l’alluvione dell’Arno. I ragazzi yè-yè, con i loro capelli lunghi, aiutarono e sostennero la città insieme ai giovani angeli del fango.

LA STAGIONE PERFETTA DI UNA SQUADRA IMPERFETTA

Scrive Aldo Bardelli sul Corriere dello Sport del 12 maggio 1969: “il secondo scudetto della Fiorentina si è nutrito di allegria. Di un’allegria sana e spontanea, come pretende il calcio autentico che, dopo tutto, è un gioco.”

In realtà quello scudetto lo vinse la squadra tecnicamente e stilisticamente migliore.
A leggere i giornali dell’epoca è chiaro come la Fiorentina yè-yè giocava un calcio esteticamente gradevole oltre che ragionato, con rapide azioni costruite dal basso, che aprivano le fasce per finalizzare il gioco con i cross in area.

La Fiorentina dello scudetto ruotava attorno ai piedi ed al pensiero geometrico dell’unico vero fuoriclasse di quel gruppo: Giancarlo De Sisti. Lui è stato l’unico romano che è riuscito a far superare il campanilismo tra le due città, facendo breccia nei cuori viola grazie al suo talento: giocatori come De Sisti sono l’intelligenza che scende nei piedi e li fa diventare appendici del cervello.

Quella fu anche la stagione di “Cavallo Pazzo” Luciano Chiarugi, poco più che ventenne, già idolo della piazza viola per quel suo modo di stare in campo. Da Chiarugi tutti si aspettavano sempre la giocata estrosa, il colpo di fino, l’azione capace di risolvere la partita per riportare la squadra fuori dalle sofferenze.
Nell’anno dello scudetto, Chiarugi mette insieme 18 presenze in campionato, la maggior parte subentrando dalla panchina, dato che Mister Pesaola lo vedeva come un crack da inserire a partita in corso. Chiarugi fu determinante nella seconda parte del torneo, dove mise a segno gol decisivi, compreso quel pomeriggio di Torino contro la Juve dove sigla uno dei due gol che valgono lo scudetto. Possiamo comunque affermare con sicurezza che con Amarildo e Maraschi ha composto un tridente d’attacco tra i più celebrati nella storia gigliata.

Quella squadra è stata capace di perdere una sola partita, a novembre contro il Bologna. Poi rimane imbattuta per tutto il resto della stagione, giocandosi il titolo con il Cagliari ed il Milan. Quell’anno i rossoneri impegnati in coppa dei campioni finirono prima la benzina, mentre i rossoblù di Gigi Riva si dimostrarono ancora acerbi per agguantare il primo titolo della loro storia che comunque sarebbe arrivato l’anno successivo.
Ma che quella viola fosse una squadra imperfetta si capì già l’anno successivo: ormai aveva perso l’effetto sorpresa ed i ragazzini non riuscirono a confermarsi sugli stessi livelli della stagione precedente finendo soltanto quinti in campionato ed uscendo al secondo turno della Coppa Campioni contro il Celtic Glasgow. Addirittura due anni dopo la stessa squadra riuscì a salvarsi dalla retrocessione in serie B soltanto all’ultima giornata.

FERRANTE E LA SCOMMESSA DEI CAPELLI

Quando la Fiorentina perse in casa l’unica partita di quel torneo (1-3 contro il Bologna) sembrava la fine di tutto, la fine scontata di un sogno, tanto che i tifosi viola abbozzarono una sorta di contestazione che portò però un orgoglioso Ugo Ferrante, roccioso leader difensivo, a rispondere alla folla gridando: “fischiate pure oggi, perché non avrete altre occasioni”. Ferrante continuò poi nello spogliatoio, dove guardando i compagni dichiarò “faccio una scommessa, non mi taglierò i capelli finché non perderemo di nuovo!”.

A Firenze questo episodio è diventato l’emblema della cavalcata verso il tricolore: i ragazzi Yè-Yè, i capelloni, trovarono in Ferrante un simbolo e mentre la squadra non subì più nessuna sconfitta la sua chioma si allungava sempre di più.
Fu addirittura un certo Enzo Tortora, giovane conduttore della Domenica Sportiva all’epoca ancora in bianco e nero, a tagliargli i capelli in diretta TV, dopo la partita di Torino che laureò la Fiorentina campione.

La storia della Fiorentina Yè-Yè ci porta indietro in un tempo dove andare allo stadio era l’unico modo di vedere una partita di calcio, dove lo sport era allegria e non c’erano tanti e troppi soldi ad inquinarne i valori come purtroppo avviene nel calco moderno di oggi.

Questo pezzo è liberamente ispirato al libro “Li chiamavano yè-yè”, di Matteo Morandini: 148 pagine che con semplicità raccontano l’impensabile cavalcata vittoriosa di una squadra di calcio e le emozioni vissute da un giovane dell’epoca.

 

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